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L’emorroissa e la Misericordia

di Claudio Capretti

 

Dodici, come il numero delle tribù d’Israele, come il numero della pienezza, della totalità. Dodici, come la somma delle dieci Parole di vita e dei due comandamenti dell’amore. Dodici, come gli anni che soffro di inarrestabili perdite di sangue. Molte volte per avere un po’ di sollievo, mi sono imposta di immaginare una vita diversa da questa, di fuggire dalla mia storia, di immergermi in un sogno di normalità.  Breve illusorio attimo che non sono mai riuscita a trattenere, pagato a caro prezzo da una realtà che mai si dissolve, che, con sfrontata ostentazione mai indietreggia. Malata e costretta all’anonimato perché, come dice la Legge, impura come una lebbrosa  che nulla può toccare perché a sua volta ogni cosa toccata diviene impura. Guardo coloro che amo, i pochi che sanno, li interrogo non con le parole che oramai non posseggo più, ma con gli occhi, alla ricerca di risposte che nessuno di loro sa darmi. Spesso mi capita di intuire i loro pensieri e  ho l’impressione che facciano più male dei loro silenzi.  Vorrei una mano che mi accarezzasse un sorriso che mi incoraggiasse e non ho che sguardi  che si posano a terra quando li incrocio. Guardo le donne del mio paese, le osservo quando ritornano dalla vasca della purificazione, la mikveh, una volta adempiuto il rito che segna la fine delle loro perdite mensili. Osservo i loro figli e i loro mariti corrergli incontro, riabbracciarle di nuovo, le vedo avvolte dalla tenerezza, dall’amore, pronte di nuovo a riaprirsi alla vita. Sono felice per loro e nessuna invidia mi ha mai posseduta, ma l’amarezza di ciò che sono non mi ha mai abbandonata. Per quale ragione io vengo privata di quello che tutte le donne hanno?  Perché nessun medico ha potuto guarirmi e tutti i miei averi sono fuggiti inseguendo speranze divenute poi in illusioni?. Dodici anni di una vita che non è vita, come dodici sono gli uomini che hai radunato accanto a Te e che ti seguono apertamente, come da un po’ di tempo faccio anch’io. Appartata ti ascolto, mi incantano le tue  parabole che parlano del seminatore che getta la sua semente fra rovi, sassi e strade, di servi che vedono solo la zizzania e del padrone del campo che vede soprattutto il buon grano,di vignaioli crudeli, di piante potate affinché portino più frutti e di operai chiamati chi alla prima chi all’ultima ora. Avessi un solo pizzico di ardire o mio Signore, quel frammento di coraggio che mi consentisse di pormi dinnanzi a Te e di domandarti: “Perché mio Signore  parli di contadini e hai chiamato a Te dei pescatori?” ; e chiederti ancora: “Perché, più che ad  un contadino o  un pescatore, Tu o mio Signore, assomigli ad un pastore?”.  Si lo so, sarebbe solo un pretesto per avvicinarmi a Te, per parlarti, per poi dirti di aiutarmi…E’ vero mio Signore, molte cose non le capisco, sono solo una donna e per giunta impura, eppure questo non mi impedisce di riconoscere nella Tua voce, mio bel pastore, la voce della Vita, la voce di Colui che conosce il suo gregge e che non teme della sua puzza. Scopro continuamente in Te la presenza di Dio pur essendo uomo di carne come ognuno di noi, e vorrei poter dare una spiegazione logica, razionale a ciò che provo per Te, ma alla fine devo rinunciarvi, perché ho l’impressione che Tu sia come l’aria, non puoi comprenderla, puoi solo respirarla. Dodici anni di malattia, come dodici sono gli anni della fanciulla morente da cui stai andando per guarirla. Strana coincidenza, la sua nascita segnò l’inizio della mia malattia...  Suo padre, Giairo capo della sinagoga, si è prostrato dinnanzi a Te, ti ha supplicato chiedendoti l’insperato. Lui maestro in Israele, chiede aiuto al Maestro sceso sulla terra per rinnovare ogni cosa. Deve aver visto in Te, quello che anch’io vedo e che appare evidente in tutta la sua pienezza, o meglio, la risposta che Dio ha dato al peccato dei nostri progenitori. Se loro ingannati dal serpente antico, nel voler essere come Dio hanno messo da parte la loro umanità, Tu sei sceso dal cielo e rimanendo Dio, sei divenuto uno di noi, affinché noi divenissimo come Te.  Deve essere questa la fede, credere in Te, nell’Inviato del Padre, nel medico celeste che cura ogni infermità. Che cos’altro può essere la fede se non credere in questo, se non sperare contro ogni speranza, se non abbandonarsi nelle mani dell’Onnipotente come fece il nostro padre Abramo quando il Signore gli chiese di sacrificare il suo figlio Isacco.  Tutti questi pensieri affollano non poco la mia mente e confluiscono in un’unica convinzione, quella di dire a me stessa: “Se riuscirò a toccare le sue vesti, sarò salvata”.  Toccare di nascosto  il lembo del Tuo mantello, sfiorarlo appena con la certezza di venirne sanata e liberata da una schiavitù che dura da troppo tempo. Stamane sono in molti a stringerti da ogni parte,  ma quanti sono coloro che realmente toccano la tua divinità o mio Signore? Chi tra questa gente ti sta toccando con vera fede? Subisci tutto questo senza nessuna protesta e di certo non ti accorgerai di me. La mano si posa leggera sul lembo del tuo mantello, sfiora appena la sua frangia; è attraverso la mia mano che le viscere del mio cuore gridano a Te dicendoti: ”Salvami, mio Signore, te ne prego! Non sono forse anch’io sono tua figlia?”.  Tutto avviene in un istante le perdite di sangue si fermano,  la vita torna di nuovo a scorrere in me. Osservo la mia mano, la rivedo quando piena di monete la svuotavo nelle mani di chi non mi ha mai potuto guarire. Oggi, ho steso su di Te una mano vuota delle cose di questo mondo, ma piena del mio confidare in Te. La forza che ti ho sottratto ha colpito violentemente il mio male, ed è rimasta impressa nella mia mano. Come una ladra che ha raggiunto il suo scopo, mi appresto a tenere ben nascosto il mio bottino, o meglio la mia guarigione, e non per ingratitudine mio Signore, ma solo per timore di far sapere che sono stata un’impura..“Chi ha toccato le mie vesti?” , ascoltandoti  istintivamente alzo il mio velo sul mio viso, come a volermi nascondere da Te, mi impongo di non fuggire immediatamente per non destar sospetti.  Interroghi i tuoi, i quali altro non possono risponderti che: “Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: Chi mi ha toccato”. La loro risposta non ti basta, il tuo sguardo, uno sguardo che scruta nelle profondità di ogni cuore, cerca, e so che sta cercando me.  Non mi fissi direttamente, forse per non costringermi con la forza ad uscire fuori, ma capisco che mi stai aspettando affinché da questa manifesta guarigione possa essere resa nota la mia fede nascosta. Dodici, come il numero delle ceste avanzate dalla condivisione dei pani e dei pesci, come un’infinità di tante altre cose che ignoro, per me è solo il numero degli anni trascorsi a soffrire e mentire, ma oggi è  giunto il tempo della verità. Fatico non poco ad uscire allo scoperto, tutta tremante mi getto ai tuoi piedi e dico dinnanzi alla folla, tutto quello che Tu già sai. Nello stupore o scandalo generale di chi ci guarda, avverto che nel darti testimonianza la mia fede aumenta e la mia gratitudine per Te allontana da me ogni paura. Potevi tacere mio Signore, far finta di nulla, sapevi che ti sarei stata eternamente grata, solo io e Te avremmo saputo. Eppure, mi hai spronato a fare ciò che è giusto, forse per dare coraggio a qualcuno, non so….., e se Tu per primo non hai  temuto di far sapere di essere stato toccato da un’impura, come potevo io tacere? .  Ho lasciato a terra tutte le mie paure, come cose morte, vecchie, passate come lacci disciolti che oramai non mi trattengono più. Testimoniare la mia fede in Te, l’ha resa ancor più bella, più viva, più forte, rendendo me più libera. Sento il Tuo sguardo su di me che mi avvolge di infinita tenerezza, ascolto le Tue vive parole che come un balsamo si riversano ora sul mio cuore: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Và in pace e sii guarita dal tuo male”.

 

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