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Matteo e la Misericordia.

di Claudio Capretti

Una sedia e un tavolo, una sacca per raccogliere le imposte e una pergamena per registrare chi paga e chi no. Tutta la mia vita è fissata su queste quattro cose, quattro catene che mi fissano a terra, o quattro ancore che mi impediscono di prendere il largo. Io, Matteo, non devo di certo essere un buon esempio per il mio popolo. Avverto su di me il loro disprezzo quando mi pagano le imposte che Roma reclama, nei loro occhi vedo chiaramente tutta la loro mal celata avversione. Traditore sia del mio popolo che della tribù di Levi dalla quale discendo. Mio nonno, con orgoglio, mi raccontava che eravamo discendenti del terzogenito di Giacobbe e Lia. In quel nome c’era racchiuso tutto il desiderio che la povera Lia aveva nel farsi accettare da suo marito, infatti Levi significa: “Questa volta mio marito si affezionerà a me, perché gli ho partorito tre figli”. Ciò non accade mai perché il cuore di Giacobbe era sempre e solo stato per sua sorella Rachele, come l’amore che portò per figli nati da quest’ultima, Giuseppe e Beniamino, fu sempre più grande di quello che Giacobbe portò ai figli della prima moglie. Quando il mio popolo fu liberato dall’Egitto, e dopo aver preso possesso della terra che Dio aveva promesso ad Abramo, ad ogni tribù fu assegnato un territorio, ma non alla tribù di Levi. Dio ci scelse per servirlo, e di vivere con la decima che il popolo offriva. Immobile dal mio banco, vedo i volti dei bambini che accompagnano i loro padri, li vedo fingendo di non vederli, li vedo che puntano il loro dito verso di me, sicuramente staranno chiedendo ai loro padri chi mai io sia. Vedo le reazioni dei loro padri, intuisco che dicano ai loro figli che altro non sono che un pubblicano, o meglio un pubblico peccatore.  Vedo i loro sguardi infantili tingersi di delusione, distolgono lo sguardo da me, come se fossi qualcosa di ripugnante dalla quale fuggire. Quando ciò accade, ripenso alle parole del salmo che dice: “Con la bocca dei bambini e dei lattanti affermi la tua potenza o Signore, per ridurre al silenzio nemici e ribelli…”, parole di severo giudizio che pesano come macigni sulla mia vita. Tornandomene a casa, congedata la scorta, apro la sacca dei denari, per dividere quello che devo a Roma e quello che rimane a me. Osservo le monete scivolare dalle mie mani, le vedo cadere sul tavolo di casa, e mi sembra di avere tra le mani un pugno di sabbia che come apro il palmo della mia mano non la posso trattenere.  Ad ogni tintinnio che risuona nelle mie orecchie è un battito del cuore che si arresta. Dove mai sarò? Dove ho trascinato me stesso? Tutto questo ne valeva la pena?  Le cose che mi circondano mi dicono di si, l’insoddisfazione della mia anima lo nega con forza. Anima mia, perché sono stato così crudele con te? Cuore mio, come ho potuto relegarti nelle profondità della roccia fino a non ascoltare più il tuo battito e  divenire insensibile a tutto?  Ho infierito su di voi per  inseguire ciò che non sazia, ho corso inutilmente per possedere ciò che alla fine, goccia dopo goccia, ha posseduto e avvelenato me stesso. La notte trascorre inquieta, come molte altre, appena alzato  ho dinnanzi a me tutta la pesantezza di un nuovo giorno che dovrò attraversare. Raggiungo il  banco delle imposte, e chino riprendo a tradire e defraudare il mio popolo. Come vorrei alleggerire il mio cuore, come vorrei un dito che mi indicasse e non per disprezzo, come vorrei una voce che mi chiamasse, che allontanasse da me  l’inganno che mi ha soggiogato. Tra i molti volti che mi sono intorno avanza verso di me il Volto, che si pone innanzi a me e a ciò che mi imprigiona. Avverto il suo sguardo posarsi su di me, uno sguardo che non posso non ricambiare e venirne rapito. Non posso non avvertire in quello sguardo un’infinita dolcezza che riaccendere in me la bellezza di un’anima, la mia, che credevo persa per sempre. Proprio stamane, disilluso di ogni cosa dicevo a me stesso: “ A metà della mia vita me ne vado verso le porte degli inferi;sono privato del resto dei miei anni”, ed ora con il tuo venirmi a cercare, ribalti ogni cosa.
Quale grandezza è mai questa, quale potenza racchiude questo tuo sguardo?  Punti ora il tuo dito verso il mio cuore e non per condannarlo, bensì per riconquistarlo, come per reclamare ciò che da sempre è stato tuo.  Incidi nella roccia che lo avvolgeva, lo raggiungi per restituirgli nuova vita, nulla in me ti oppone resistenza, avanzi come un prode avvolto di grazia e di splendore, avanzi, e nulla si sottrae al tuo volere, ogni cosa morta in me retrocede. Solo Dio, il Dio dei vivi, può compiere simili cose, solo in lui, può allora riposare la mia anima e il mio cuore. Accarezzi la mia anima con la tua giustizia, avvolgi il mio cuore con la tua pace.  Sublime epifania dell’Eterno, che apri i cieli e ti chini sulla tua creatura per rialzarla. Ti osservo ancora rapito, o buon Maestro, una sola parola esce dalla tua bocca: “Seguimi”.  Vita della mia stessa vita, anima della mia anima, che con la forza della tua Parola vieni a liberarmi, che rivelandoti alla mia vita riveli a me stesso chi sono realmente io. Non mi nascondi i miei errori, i miei tradimenti, ma non vieni a me per spezzare la canna incrinata della mia vita, vieni a riconquistare ciò che era tuo fin dall’eternità, vieni a me rivestito di misericordia tendi la tua mano per risollevarmi dal profondo dello sheol. I piedi si liberano della sedia e del banchetto dove giacevano, le mani si liberano della sacca dei soldi cadendo a terra, avverto a malapena il loro tintinnio, ed è come se mi dicessero: “Ma cosa stai facendo? Vuoi finire in rovina? Siamo solo noi la tua sicurezza”.
Incurante della gente che si accalca per raccogliere le monete, libero avanzo verso di te potenza della mia debolezza, come un bimbo contempla sua madre subito dopo essere tratto dall’utero materno. Sono rotti tutti i miei legami e altro non desidero che seguirti, perché è in Te solo la fonte della vita, e comprendo che nulla ha senso se Tu non ci sei. Ingannato me ne andavo verso l’oblio delle mie cose, ma ora torno di nuovo a vivere. Arso era il mio cuore prima che tu venissi a me, privo di ogni speranza prima che il tuo sguardo si posasse su di me. Felice aridità, che ha  che ha reso il mio orecchio sensibile al tuo passaggio, ma ora sei qui mio Signore e niente altro più conta nella mia vita. Tu mio sommo bene, Tu infinita dolcezza, Tu mio tutto e che ogni parola umana non potrà mai descrivere appieno Occorre far festa, ero come morto ed ora torno a vivere, salvato per grazia di Dio perché predestinato fin dall’eternità ad essere con te, mio Signore. Occorre far festa, questa tua vittoria mio Signore non è solo per me, lo capisco nel guardare questa sala piena di gente come me. Guardo il tuo modo affabile di rivolgerti a loro, instancabile e innamorato cercatore delle Tue creature. Hai catturato me per catturarne altri ancora, e ancora altri dopo di noi. Un solo attimo di amarezza attraversa la mia vita,  quando ascolto ciò che i farisei dicono ai tuoi: “Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”.  Strana gente i farisei, una stirpe nata per  preservare la purezza della legge, per trasmetterla al popolo, ma che l’ha rinchiusa dentro un’infinità di norme e precetti, soffocando ciò che dovevano preservare. Li vedo imprigionati dalla durezza dei loro comandamenti, come io ero prigioniero dalla durezza dei miei averi. Vedo come attraverso quella domanda si nasconde l’intento di dividere, di scandalizzare, di allontanare da Te le tue anime. Ma tu mio Signore, non ne sembri turbato, e con la forza che ti viene dalla Verità, affermi ciò per cui sei venuto: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti ma i peccatori”. 

 

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