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Riflessioni di don Daniele Dal Prà

sui testi di Giuseppe Angelini

 

"IL FIGLIO UNA BENEDIZIONE, UN COMPITO"

"EDUCARE SI DEVE, MA SI PUO'?"

 

INTRODUZIONE

La riflessione sul processo educativo genitori-figli sviluppata in questo percorso, origina dall’analisi dei testi Il Figlio Una benedizione, un compito - Educare si deve, ma si può?, entrambi dell’Autore Giuseppe Angelini, insegnante di Teologia Morale alla Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale.
Se ogni genitore può in teoria conoscere quanto sia importante una corretta relazione educativa capace di consegnare al proprio figlio un’immagine vera e buona della vita, in pratica molte sono le difficoltà che essi incontrano e inducono al dubbio dell’effettiva praticabilità del processo educativo.
Ogni momento storico cercando di analizzare le proprie Transizioni, ossia quelle caratteristiche che nel loro contesto sociale vengono definite momenti di passaggio verso una posterità (parlando di epoca post moderna, post industriale, post comunista, post ideologica, post cristiana), assai spesso si ritrova a sperimentare la realtà effettiva del contesto transitivo, come la diagnosi di una fine piuttosto che di un passaggio.
Difatti, osserviamo come dall’ottocento si sia iniziato ad individuare nella morte di Dio la lettura della transizione moderna, e dal secolo successivo l’epoca iniziale della morte dell’uomo, o come sottolinea Angelini, del Soggetto che mentre vive in funzione della realizzazione dei suoi progetti, vede svanire questi suoi sogni, costringendo il proprio Essere a rinchiudersi nell’ambito della rassegnazione.
Come conseguenza di questo processo, l’Etica cede il passo alla realizzazione Estetica della vita, ossia a quella forma incapace di affrontare la realtà esistenziale, le difficoltà consistenti del vivere e dell’educare, delineando secondo il pensiero di Erik e Blos, i tratti interminabili di un’adolescenza che percepisce preoccupante occuparsi del processo relazionale.     
I genitori, divenuti incapaci di dire cosa effettivamente sia educazione, perché i contenuti della cultura, le conoscenze e le abilità, così come i significati ed i valori, sono divenuti complessi , affidano ad istituzioni specifiche, come la scuola o la scienza che insegnano però non educano, quei doveri che nel passato Europeo si producevano attraverso forme immediate di socializzazione all’interno della famiglia stessa.
L’insegnamento scientifico di natura illuministica, considerando libero quel soggetto capace di Agire senza dipendere dal giudizio degli altri , esprime in questo ideale supremo il concetto di libertà attuale.
Questo insegnamento fondato sulla ragione che non spiega la verità che autorizza la vita, ma sostituisce i semplici ideali con le risorse che l’uomo ricerca per vivere nel sogno, originano una libertà attivata sulla conoscenza critica, e diffondono nella cultura odierna un attivismo pedagogico, teso a favorire l’attività spontanea del minore , mediante quelle forme dell’Agire che possono portare alla luce quanto nascostamente ha scritto in sé.
Un Agire esuberante staccato dall’identità stessa del soggetto, non inizia progressivamente il bambino, a forme che siano verifica con la realtà effettiva della vita, ma bensì lo spingono alla recita di un’azione virtuale, che «assumendo la consistenza di metafora, drammatizza un sogno del minore, che possa controllare in maniera autonoma la realtà, senza che esso lo rimandi all’immagine di se stesso» .
La  libertà vera, dunque di cui il bambino ha necessità non risiede nella conoscenza critica, ne nell’attivismo pedagogico, ma necessita di sapienza, ossia di conoscenza della vita «della via che consente di proseguire il cammino che inizia senza necessità di conoscerne previamente la strada» .
L’incapacità educativa espressa nei molti fallimenti emersi dal processo educativo genitori-figli, la mancanza di speranza-fede-carità, il timore davanti al futuro, la corsa agli armamenti, la crisi petrolifera segno dello sviluppo invalicabile dei paesi occidentali, il movimento verde-radicale che annuncia il prossimo collasso della terra, accompagnato da nuove piaghe e malattie come la droga e l’AIDS, sono fattori che hanno alimentato ed alimentano nelle coppie occidentali la resistenza al generare.
La chiusura alla vita e l’esasperata ricerca del figlio unico, hanno come effetto l’esposizione del bambino ad un’inquietante fragilità dell’universo circostante, dovuta alla mancanza di fratelli, e quindi della vivacità della vita e di quella scuola di speranza che impedisce l’attenzione ossessiva dei genitori ad ogni loro variazione di umore, che nonostante si voglia sostituire attraverso una presenza animale come il gatto o il cane, isolano sempre più il bambino all’interno di quella prigione, rappresentata oggi dagli appartamenti urbani.
Davanti alla difesa del futuro quale proprietà personale gelosamente custodita, alla possibilità di programmare i tempi liberi dal lavoro da parte dei genitori, il figlio appare ormai come tempo sottratto all’arbitrio personale, e difronte a una tale espropriazione del futuro la coscienza istintivamente resiste, non solo come espressione di egoismo, ma sempre di più espressione dello strutturale individualismo culturale del nostro tempo , che non riesce più a comprendere come il figlio non sia solo un compito o una grata compagnia per la vecchiaia, ma principalmente una benedizione ed un ignaro maestro di speranza.

 

LA TRADIZIONE BIBLICA

La vita dell’uomo biblicamente parlando ha la struttura di un Alleanza originata esclusivamente dall’iniziativa gratuita di Dio, ed è proprio nello schema mosaico, che ritroviamo l’immagine capace di interpretare l’esperienza umana universale ed il rapporto tra l’originario e il gratuito «il dono infatti realizza un rapporto che anche impegna; istituisce un vincolo; anzi alla fine si dovrà riconoscere che soltanto mediante il dono può essere istituito il vincolo» .
Nell’esperienza originaria di Israele così come nell’esperienza umana universale, la grazia precede e suscita la libertà, ascoltare la Promessa è condizione perché l’uomo stesso possa promettere, ed il figlio è la prima e fondamentale testimonianza della benedizione di Dio, che anticipa la vita umana, rendendola buona e radicalmente possibile.
Nel figlio si manifesta il dono che Dio fa alla donna e all’uomo di un futuro per il quale merita di spendersi, e l’Autore, per sviluppare il tema del Senso generazionale e del rapporto umano che ne scaturisce, introduce due questioni: «Che senso ha il figlio nella vita umana per coloro che lo generano, e Che senso ha l’essere figlio nella vita di ogni uomo» .
Il Senso della generazione, affrontato diversamente dai termini lecito-illecito sui quali i mass media esercitano un’esasperata violenza nei confronti della coscienza e dei sentimenti del singolo, aiuta a comprendere il senso delle cose e del mondo, nel quadro dell’incontro e quindi del dono.
Nella storia di Abramo l’intreccio generazione-fede manifesta quella verità minacciata nell’esperienza psichica, figlio per Abramo è principalmente desiderio che rende necessario salire sul monte senza fare dell’affetto la misura pregiudiziale, ma l’alleanza con il figlio è sicura soltanto a condizione che il figlio non sia trattenuto come una proprietà.
La stessa predicazione profetica fondata sulla promessa a Davide di un Figlio per bocca di Natan, da forma alla speranza di Israele, predisponendo ogni generazione attraverso i figli e i figli dei figli, all’attesa messianica, rivelando come sia possibile e responsabile per l’uomo e la donna generare, solo alla condizione che sia loro concessa una promessa per i tempi futuri.
La fede per Davide, come per Abramo, comporta questo aspetto assolutamente essenziale: essa costringe a sostituire alla speranza più piccola, designata dal desiderio psichico dell’uomo, una speranza più grande, e insieme meno precisa e meno controllabile; costringe a riconoscere che custode di quella speranza può essere Dio soltanto .
La fede di Davide accostata a quella di Maria, diviene figura dell’obbedienza richiesta ad ogni donna e ad ogni uomo che si apprestano a diventare genitori, rivelando come nel figlio speranza e impegno si uniscono espropriandoli da tutto quello che ritenevano essere la loro vita, per proiettarli in un futuro che non sarà per loro una proprietà, ma bensì il principio di un obbedienza.
Affinché la vita non si arresti nel momento della prova è necessaria una seconda nascita, questa volta non dalla carne e dal sangue, ma da una libera scelta; è richiesta una seconda navigazione perché «soltanto attraverso le evidenze dischiuse della prima, l’uomo possa guadagnare i criteri che presiedono alla vita spirituale» .
Se la vita è possibile solamente nel segno di una Promessa capace di iniziare il cammino della vita, la parabola dell’Esodo diviene educativa anche per passare dall’età infantile a quella adulta, difatti, durante questo cammino Dio conduce il suo Popolo alla Sua presenza sul monte Sinai, senza alcuna necessità di scelta; ma nel momento del culto di cui è modello il Sinai, si richiede per sua natura conferma e verifica nella distensione del tempo.
Il passare dalla condizione infantile del Popolo di Israele a quella adulta, esige un tirocinio dischiuso nelle prove che deve affrontare durante la vita quotidiana, nelle quali come ad un bambino che deve essere educato non è espresso alcun giudizio.
Il bambino da principio non conosce la Legge, ma gli è proposta per aiutarlo ad essere educato, e solo al termine di questo tempo che non ha durata illimitata,  giunge il tempo nel quale la Legge diviene criterio di giudizio, per questo arrivato a Massa e Merίba il giudizio per il Popolo di Israele è chiaramente espresso.
Il Deuteronomio fondando la sua esperienza su la figura del padre chiamato a ricordare ai figli le opere compiute da Dio, attraverso quel passato dal quale scaturisce l’intelligenza del presente e la speranza del futuro, mostra come non sia possibile rendere ragione della vita che i figli trovano già determinata, se i padri non risalgano ad un opera più sicura della loro.
Diversamente l’uccisione del padre determinata da gran parte del movimento democratico, e gli stili di vita proposti dalla società dei consumi hanno appiattito i tempi ed i gesti, facendo perdere alla vita quotidiana i riti della prevedibilità, che rendono possibile l’attesa e la memoria.
La figura paterna non interpreta più l’oggettività della Legge, proponendo un modello puerocentrico di famiglia culturalmente unisex che alimenta la persuasione della fungibilità dei compiti della madre e del padre; ed il latente rifiuto della qualità di figli, oltre ad apparire come una ferita il fatto di essere generati, rischia di fare della figura paterna un esclusivo compagno del tempo libero e del gioco, che lascia al protagonismo della madre, le diverse forme connesse al bisogno.
Il sentimento di debito nucleo primario della coscienza morale, non nasce insieme all’uomo ma cresce attraverso una storia, che prospetta l’evidente certezza di essere atteso, riconosciuto ed accolto, invece oggi i sociologi e psicologi, preoccupati del processo genitori-figli, troppo spesso dimenticano, come la generazione segna l’identità dei genitori: «si diventa padri e madri per sempre, e tale qualità connota il senso intero della vita di ciascuno. La qualità dell’essere figli poi segna ancor più chiaramente e radicalmente fin dall’inizio l’identità stessa di ogni creatura […] Non soltanto ho un padre e una madre, ma sono figlio loro» .
I genitori hanno il compito di iniziare il bambino a quell’immagine del mondo che gli consente di abitarlo, allo stesso modo di come è abitata la casa dei  genitori, essere generati è un dato di fatto, che solo in un secondo momento diviene Atto e quindi una scelta da compiere.
La fiducia primaria che il figlio nutre nei confronti del genitore, non lo rassicura solo emotivamente ma comporta anche un’attesa nel bambino di un modo di Agire, di una Legge che dalla conformità stessa del genitore ad un ordine, appare agli occhi del figlio evidente e convincente proprio grazie ai comportamenti del genitore .
La filosofia di vita suggerita nel momento della Creazione dal serpente, illumina il generarsi del male nella scelta di affidarsi all’esperimento universale, anziché alla fede in Dio, e il dolore del parto, l’ambiguità del rapporto uomo-donna, la fatica e la sterilità del lavoro e della morte, lungi da essere sanzioni imposte, interpretano piuttosto come la fede superi quelle ambiguità che di fatto assumono agli occhi degli umani tutti gli aspetti fondamentali del vivere .
La donna apparendo nemica del serpente, nel generare ha scritto una Promessa relativa alla verità della vita, la generazione strappa all’uomo e alla donna quella loro bontà naturale che crea inimicizia nei confronti del serpente, profezia di un mondo retto da altre leggi, che in Gesù assumono le caratteristiche di rinuncia agli affetti come un limite nei confronti del rapporto.
Le parole del vecchio Simeone, lo smarrimento di Giuseppe e Maria davanti alla perdita di Gesù nel tempio, così come il rapporto di Gesù con i suoi Apostoli, seppur sono arcani silenzi svelati esclusivamente nello distendersi del tempo, concorrono insieme alla comprensione cristiana della maternità naturale e alla comprensione della realtà della Chiesa.
L’Amore concorre insieme a chiarire il senso dell’amore materno e  paterno, ed il rapporto di fraternità che è vissuto dai discepoli del Signore rivela compiutamente la promessa di cui è gravido ogni rapporto di fraternità naturale .

 

CONCLUSIONE

Il peccato di Israele nel deserto paradigma universale del peccato, ha in se proprio questa fisionomia, il rifiuto di credere e la correlata pretesa di vedere, che non è l’uomo soggetto alla prova di Dio, bensì Dio e tutte le sue opere sono adesso sottoposti alla prova dell’uomo.
Il cammino del deserto diviene esperienza che sviluppa nell’uomo la grazia di poter Agire per sempre nel tempo disteso della storia, ossia quel tempo della morale, che erompe dalla Promessa di Dio, e rende possibile e pieno di senso la realtà umana anche davanti al generare ed al suo evolversi educativo.
Come Israele si pentì di essere stato liberato dalla schiavitù, ci si può anche pentire di essere nati, seppur nessuno sceglie di nascere così come neppure Israele scelse di uscire dall’Egitto.
Augurarsi di non essere mai nati come disse Giobbe, è smentire tutto ciò che in precedenza si è amato e voluto; ma la fedeltà nei giorni nei quali la terra non corre incontro al desiderio umano del vivere, è possibile soltanto alla condizione che si passi ad una vita morale, slegata dalle  spontanee emozioni infantili.
Il rifiuto ad ascoltare la voce di Dio è rifiuto della libertà e dei benefici gratuiti che ogni uomo conosce con la venuta in questo mondo, in questa luce, il fatto di esistere in forza di una scelta altrui, diviene nella cultura odierna fondata sulla negazione di ogni questione morale, quasi una ferita e un’offesa nei confronti del principio antropologico dell’autonomia del singolo soggetto.
Il generare manifesta la legge fondamentale dell’Agire umano, perché quanto l’uomo fa è anche altro da quello che egli intende, ossia l’Agire umano esige che l’uomo riconosca una trascendenza, e decida conformemente a tale consapevolezza: «il figlio non è il risultato degli atti dei genitori […] ma è Persona, è dunque soggetto spirituale degno di infinito rispetto» .
In verità tutti siamo figli perché tutti siamo generati, di conseguenza si fa il padre o la madre, non secondo i libri di esperti nei quali si spiega come si fa, ma occorre proprio esserlo. L’essere generati non indica solo la causa del nostro esistere, ma connota la nostra coscienza e dunque l’immagine che abbiamo di noi stessi.
Un Atto è libero solo se è affidato ad una Promessa, che offra all’Agire umano un futuro differente dal pensiero della morte che i nostri Atti hanno nel tempo, perché la salvezza è sperata e creduta solo al di là del tempo.
L’uomo può Agire unicamente obbedendo ad un’autorità più grande della sua, rinunciando al progetto di salvare la sua vita e di spenderla al servizio di quel disegno di cui si riconosce oggetto. La generazione è appunto una tale dedizione al disegno di Dio, e la verità dell’atto generativo esige che il padre e la madre promettano se stessi a colui che deve venire.
La figura dell’Atto generativo assume la forma di un Voto, preghiera espressione di una domanda, ma insieme una Promessa, è infatti nella logica del Voto che i genitori non decidono la nascita del figlio, ma la invocano da Dio.
Voto si deve esprimere nella forma dell’accoglienza dello stesso figlio come dono di Dio anche quando imperfetto o non espressamente cercato, perché un figlio è sempre un Dono e non la realizzazione di un progetto concepito dall’uomo e dalla donna.
Il figlio è principalmente una benedizione e soltanto in seguito un compito, è la grazia che precede la libertà e la suscita, ponendo una stretta connessione tra la generazione e l’educazione, perché, «l’educazione è il complesso degli atti mediante i quali i genitori rendono ragione al figlio della Promessa che essi gli hanno fatto mettendolo al mondo […] la vita consegnata dal genitore al figlio quale pegno della verità di quella speranza che ha autorizzato la scelta di chiamare anche lui alla vita».

 

 

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