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I nostri pulpiti devono rimanere nostri

 DI COSTANZA MIRIANO

 

Vedo una certa fretta, da parte di alcuni cattolici (non saprei dire se siano pochi o molti, di certo alcuni tra questi sono in posizioni culturalmente significative, in certi gangli decisivi almeno della comunicazione) di dialogare sempre e comunque con chi la pensa diversamente, una certa ansia di ribadire la non estraneità, la preoccupazione di dimostrare l’essere al passo con il mondo, di sottolineare più quello che è in comune rispetto a quello che è sideralmente lontano, di dire che noi “va be’, sì, crediamo un po’, però abbiamo da imparare un po’ da tutti”. Come diceva padre Pizarro, per me uno dei più riusciti personaggi di Corrado Guzzanti: credo molto in Dio, come tutti i Toro ascendente Gemelli (o qualcosa di simile).

Lo dimostrano convegni, eventi, conferenze e cortili vari (ma quanti ce ne sono?) in cui ci si premura sempre di far salire in cattedra, con cura solerte, almeno un non credente per ogni cattolico, come se ogni opinione avesse necessariamente la stessa dignità, come se essere fermamente convinti di stare noi dalla parte della Verità potesse essere offensivo per qualcuno. A volte poi succede anche che all’”altro”, spesso dichiaratamente contro la Chiesa, venga addirittura lasciato il palco da solo, senza neanche un contraddittorio, in ossequio a una malintesa idea di laicità.
Io ho l’idea che noi cattolici abbiamo, sì, il dovere del dialogo con chi la pensi diversamente da noi, ma per come la vedo io si dialoga davanti a un tè, magari si invita quella persona a cena, si cerca di accarezzare l’altro con la nostra vicinanza, se ne ha bisogno o desiderio, di soccorrere le sue necessità, se possibile. Ma i nostri pulpiti devono rimanere nostri. Non si può pensare sempre di avere sempre qualcosa da imparare da tutti, sui temi fondamentali. Non mi farò spiegare il senso della vita, la felicità, il valore di quello che faccio da chi non ha conosciuto l’amore di Dio. Potrà insegnarmi tutto il resto, probabilmente (la mia ignoranza è senza lacune, come diceva Petrolini), ma non lo starò ad ascoltare su temi che si intrecciano con le verità di fede.
Quando è il momento di avvicinare la gente, di parlare alle persone per annunciare Gesù Cristo unica salvezza dell’uomo – voglio sperare che sia questo l’unico fine di OGNI iniziativa culturale dei cattolici – allora noi per primi dobbiamo essere che quello in cui crediamo è la Via, la Verità, la Vita. Se non ci crediamo per primi noi, come faremo a convincere gli altri?
Se, per esempio, abbiamo dei figli, evidentemente vogliamo che non si buttino da una finestra al quinto piano, perché sappiano che morirebbero, e lo sappiamo con la certezza che non ha bisogno di una prova pratica. Non chiederemo opinioni a parenti e conoscenti. Non diremo “mio caro figliuolo, per la mia modesta opinione se tu protendi le tue membra all’esterno delle mura della nostra magione potresti porre a rischio la tua sorte. Ti inviterei dunque a non farlo, nella speranza che tu non avverta tarpate le ali della tua libertà ”, ma diremo più brevemente “se cadi giù ti sfracelli”, e in caso potremmo al limite aggiungere “se ti avvicini le prendi”.
Se noi crediamo che Gesù Cristo è l’unica Via per accedere a Dio, se crediamo che Dio è l’unica felicità possibile, se crediamo che la Chiesa è a garanzia che ciò in cui crediamo non sia un parto della nostra fantasia, se crediamo che siamo nati per un disegno di amore di Dio, che ci ha pensati da prima che nascessimo, e che siamo fatti per la vita eterna, non andremo tanto in giro a cercare maestri, ad ascoltare voci, a mendicare risposte che abbiamo già ricevuto, o almeno che sappiamo dove trovare.
Non perché noi siamo i più intelligenti o bravi, né migliori di nessuno, ma perché ci fidiamo della Chiesa di cui siamo figli amati, e di Cristo, suo sposo.
Questo non esclude il desiderio di amicizia con tutte le persone del mondo,  con cui si può parlare di qualsiasi cosa, a cui si può volere un bene incredibile, per cui si può, anzi si deve dare la vita. Ma i convegni no!
Noi cristiani non siamo di questo mondo, la nostra non è una bella patina con cui cercare di rivestire in una sintesi in equilibrio più o meno precario vite borghesi con la cintura di sicurezza. Essere cristiani deve essere tutto un altro vivere.
È essere come Chiara Corbella, che sulla verità e certezza assoluta della vita eterna ha scommesso tutto. Ha accolto due figli destinati a vivere poco. Ha accolto un altro figlio mettendo la sua vita prima della sua. Ha accolto con il sorriso anche la propria morte del corpo, ricordando che “siamo nati e non moriremo più”. Domani al Divino Amore, santuario dei Romani, il primo anniversario della sua morte verrà ricordato con una messa, alle 17, concelebrata da don Fabio Rosini. Una messa per una che tiepida non è stata proprio.

 

 

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