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«L’elmo del cristiano»

Riflessioni sul segno di croce

 

Il recente Anno della Fede ha richiamato giustamente la nostra attenzione sulla fede stessa e sul nostro modo di viverla e comprenderla. Per questo sarà pure il momento più opportuno per riscoprire (o forse conoscere per la prima volta!) un piccolo gesto, tanto elementare quanto fondamentale, diremmo enorme: il segno della croce. Lungi da noi l’idea di tenere una lezione di liturgia, vogliamo solo proporre alcune riflessioni che possano spingere il fedele a ritrovare il gusto di questo umile gesto ed anzi tornare a farne il più largo uso possibile.

Per efficacia e simbologia il segno in questione è una delle armi più potenti a disposizione del buon cristiano, tanto da essere stato definito “casco spirituale” (Cipriano di Cartagine, Lettera n. 58), “distintivo dei fedeli e terrore dei demoni” (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi), ma potremmo continuare davvero a lungo. Un tempo tanto praticato in maniera incessante dal più umile cristiano al più insigne dei santi, quanto oggi negletto se non addirittura dimenticato. Ci si segnava entrando in chiesa o passandovi davanti, oppure in presenza d’un funerale o d’un pericolo o d’una grave offesa alla religione, ecc. Oggi i più devoti lo svolgono meccanicamente, con sciatta rapidità quasi fosse un gesto “scacciamosche”, forse per stanca abitudine oppure per timore di qualificarsi davanti a tutti come cristiani: ma Gesù ha detto chiaramente che si vergogna di lui dinanzi al mondo verrà da Lui ripudiato davanti al Padre (Sinottici, passim). Altri, al contrario, ne fanno sfoggio spettacolare, o per fanatica ostentazione o addirittura retrocedendolo a puro rito apotropaico: è il caso ad esempio di numerosi atleti di varie discipline che prima di avviarsi alla gara si segnano, ma di fatto senza discostarsi di molto da quei pagani che prima dei giochi olimpici offrivano sacrifici agli dei.

Ecco allora che il segno di croce, umiliato e desemantizzato, spesso viene ridotto al pari d’un qualunque amuleto acquistato dai ciarlatani. Eppure, quale ricchezza, quale potenza, quale beneficio possiamo trarne! Il segno rinnova ogni volta la nostra fede nel Padre celeste, in Suo figlio crocifisso e redentore, nello Spirito vivificante. Segno trinitario, dunque, che quando lo si compie intingendo le dita nell’acqua benedetta ricorda altresì il nostro lavacro battesimale. Segno fugace, di sfuggita, e per giunta muto: nessuno (sempre per la fretta!) pronuncia più le dieci formidabili parole che dovrebbero accompagnare il gesto, qualificandoci senza equivoci come figli di Dio e mettendo in guardia il demonio dal tormentarci. La formula latina consta di otto parole, numero quanto mai significativo ma che purtroppo l’esiguità dello spazio ci impedisce di tratteggiare in tutta la sua meravigliosa e sorprendente simbologia.

Premesso che il segno va tracciato con mano ferma, proviamo ora a indagarne più da vicino la struttura. Il gesto “disegna” sul cristiano una perfetta croce greca, a quattro bracci uguali, secondo due assi nord/sud (fronte/petto) e est/ovest (le estremità delle spalle). In tal modo il segno di espande all’infinito verso i “quattro angoli del mondo” sia sul piano terrestre e orizzontale (Cristo fu disteso in terra per essere inchiodato) che in quello celeste e verticale del Cristo innalzato: lo spazio sacro omnidirezionale in cui s’irradia il Verbo di Dio. Un gesto che nel contempo ricorda che il corpo di Cristo crocifisso è gonfalone di vittoria sulla morte e vela che spinge al porto della salvezza. Si dirà che la croce greca non rispecchia quella latina a cui fu appeso il Cristo, ma qui il simbolo prevale sulla realtà: i bracci uguali possono essere inscritti in un cerchio (figura perfetta, immagine dell’universo) e indicare così sia i raggi del nuovo Sole nato per noi nell’attesa del giorno senza tramonto, sia quelli della ruota della Creazione che volve senza fine.

Per compiere il segno, le dita della mano destra si chiudono attorno al dito pollice come i petali d’un fiore da offrire a Dio, ma quella mano a scudo indica altresì la Carità che si avvolge a proteggere il povero e il debole; essendo chiusa, poi, segnala che essa per essere buona deve rimanere nascosta e mai ostentata. Ponendo la mano sulla fronte (sede dell’intelletto) si esprime anzitutto la Speranza nel Padre, scendendo sul cuore si proclama la Fede nel Figlio. Le tre virtù teologali sono infine suggellate fra loro dal braccio orizzontale dello Spirito Santo: da un estremo all’altro, da oriente a occidente, la mano compie un arco che è, sì, immagine del moto apparente del sole ma che rappresenta pure il passaggio dalla miseria alla gloria del Cristo sulla croce. Toccarsi le spalle però significa pure dichiarare di essere pronti a farci carico anche noi del peso della croce. Si noterà che la bocca non è affatto coinvolta nel meraviglioso simbolo: la mano scende dalla fronte al petto sorvolando le labbra. La voce è infatti solo uno strumento meccanico, che da solo non serve a nulla: non chi invoca “Signore! Signore!” entrerà nel regno dei cieli (Matteo VII, 21-27). Ma il passaggio sulle labbra ammonisce pure che la parola deve corrispondere alle opere (Corinzi I, 13). Infine, anche se si tratta di principio non più nell’uso liturgico, va ricordato che per S. Tommaso (“Summa theologiae” – Parte III - Questione 87 – art. 3) segnarsi con l’acqua benedetta influiva sulla remissione dei peccati veniali!

Il signum crucis è davvero potente e può essere ripetuto all’infinito: vi sono testimonianze di santi che si segnavano centinaia di volte al giorno. È un elmo spirituale che protegge dal Maligno ed è l’insegna del cristiano. Si può quindi facilmente comprendere, a questo punto, quale tristezza arrechi il veder un gesto così nobile ridotto a misera cosa. Segnandovi con la giusta lentezza e ben scandendo con la voce la formula trinitaria – sia nei momenti di devozione che in quelli di difficoltà – aprirete il cuore alla preghiera e sentirete sgorgarvi dal cuore nuova forza e nuovo coraggio nell’affrontare il gran mare della vita. 

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